Vita consacrata, motore di speranza in una Chiesa sinodale

Vita consacrata, motore di speranza in una Chiesa sinodale

 

Intervento del Card. Mario Grech all’Assemblea dell’USG

Roma, 23 maggio 2025

 

Sono lieto di trovarmi con voi a riflettere sulla sinodalità e la vita consacrata nel contesto del Giubileo della speranza e a pochi giorni di distanza dall’elezione e dal solenne inizio del Ministero petrino del nuovo Papa Leone XIV.

Come ben sapete, il Santo Padre ha fatto riferimento alla sinodalità fin dal suo primo saluto dalla loggia della Basilica Vaticana, l’8 maggio scorso, quando si è rivolto ai fedeli di Roma, d’Italia e del mondo intero con queste parole: «Vogliamo essere una Chiesa sinodale, una Chiesa che cammina». Anche due giorni più tardi, incontrando il Collegio Cardinalizio, ha dichiarato la sua volontà di collocarsi nella scia del rinnovamento promosso dal Concilio Vaticano II, così come esso è stato attualizzato nell’Esortazione Apostolica di Papa Francesco Evangelii gaudium, della quale ha rimarcato, tra le altre cose, l’invito a crescere «nella collegialità e nella sinodalità». E di nuovo, il 19 maggio scorso, incontrando i rappresentanti delle altre Chiese cristiane e delle altre Religioni, il Santo Padre ha affermato: «Consapevole che sinodalità ed ecumenismo sono strettamente collegati, desidero assicurare la mia intenzione di proseguire l’impegno di Papa Francesco nella promozione del carattere sinodale della Chiesa Cattolica e nello sviluppo di forme nuove e concrete per una sempre più intensa sinodalità in campo ecumenico». Con queste parole, Leone XIV ci incoraggia ad andare avanti nel cammino della sinodalità, facendo fruttificare i numerosi semi piantati nel terreno della Chiesa nel corso del processo sinodale 2021-2024.

Quel processo, del resto, non si è ancora concluso. Infatti, secondo la Costituzione Apostolica Episcopalis communio di Papa Francesco, che nel 2018 ha trasformato il Sinodo da evento a processo, la tappa celebrativa è il momento centrale ma non ancora il momento conclusivo del cammino, cammino che deve proseguire con la tappa ulteriore dell’attuazione e, per utilizzare un termine più pregnante, della recezione. Se la tappa della celebrazione è senza dubbio quella che fa più “rumore”, la tappa della recezione è invece, per molti aspetti, quella più importante. Sì, perché non basta condurre riflessioni, stendere documenti, approvarli a larga maggioranza, cose pure fondamentali. Non basta neppure l’approvazione ufficiale del Vescovo di Roma, come è avvenuto in questo caso con la decisione a dir poco “storica” di Papa Francesco di includere esplicitamente il Documento Finale del Sinodo nel suo Magistero universale, rinunciando in tal modo a stendere una Esortazione Apostolica post-sinodale. La storia della Chiesa è costellata di decisioni, conciliari o pontificie, che sono cadute nel nulla a causa della mancata recezione da parte del Popolo di Dio. Ecco, infatti, che cos’è la recezione: l’appropriazione vivente di un pronunciamento magisteriale da parte del Popolo di Dio, che in esso riconosce una regola conforme alla sua vita.

È un processo che l’autorità ecclesiastica può e deve incoraggiare con opportune iniziative – ed è questo lo scopo del lavoro attualmente in corso dei Gruppi di Studio istituiti nel 2024, così come degli appuntamenti che la Segreteria Generale del Sinodo, con l’approvazione di Papa Francesco, ha calendarizzato da qui fino al 2028 – ma che ultimamente non si può manovrare dall’alto. Il protagonista della recezione è, infatti, lo Spirito Santo, che agisce nell’intimo del Popolo di Dio e lo conduce pian piano sulla via della riforma, di cui Egli stesso è il divino motore.

Questo vale anche per il tema specifico che oggi mi chiedete di trattare con voi: la vita consacrata, motore di speranza in una Chiesa sinodale. Vi ringrazio di quest’invito, che mi permette di rileggere con voi il processo sinodale sotto il faro del Giubileo della speranza attualmente in corso. Lo farò prendendo spunto anzitutto dal Documento Finale, che delinea una “mappa” ricca e articolata per la conversione sinodale della Chiesa, tenendo conto al tempo stesso di varie altre sollecitazioni emerse nel corso dell’intero processo.

In particolare, mi soffermerò su tre aspetti, fra loro intimamente connessi: la centralità della Chiesa locale, l’esercizio dell’autorità e il primato della missione. Temi, questi, su cui tanto il Magistero di Francesco quanto il Magistero di Leone, due papi provenienti entrambi dalle file di Ordini religiosi, il primo gesuita e il secondo agostiniano, hanno certamente molto da insegnarci.

 

La profezia della vita consacrata nelle Chiese locali

Fin dal Documento Preparatorio pubblicato nel 2021 il processo sinodale ha optato consapevolmente per la valorizzazione delle Chiese locali. Il Popolo di Dio, infatti, non è un’entità astratta, un “essere di ragione”, ma un Popolo concreto, un Popolo dai molti volti che vive in ciascuna delle Chiese locali, in quibus et ex quibus – «nelle quali e dalle quali», secondo la felice espressione utilizzata dal Concilio Vaticano II in Lumen gentium 23 – esiste l’una e unica Chiesa cattolica.

È senz’altro vero che il Concilio non ha sviluppato una teologia sistematica della Chiesa locale: i suoi testi sul tema, per quanto importanti, non riescono a disegnare un quadro completo, in grado di riequilibrare la tendenza unilateralmente universalistica dell’ecclesiologia del secondo millennio. Dovremmo tessere insieme molte affermazioni sparse qua e là – contenute non solo in Lumen gentium, ma anche in documenti come Sacrosanctum Concilium o Ad gentes – per approssimarci almeno un po’ alla teologia conciliare della Chiesa locale.

Proprio per questo motivo, si avvertiva da tempo l’esigenza di un passo in avanti in questa direzione, e non tanto per ragioni ideologiche, ovvero per una sorta di “complesso anti-romano”, bensì per ragioni squisitamente teologico-pastorali. La Chiesa di Gesù Cristo non è una realtà che sovrasta i popoli della terra, imponendosi dall’alto come un monolite estraneo alle loro culture. La Chiesa, piuttosto, è il Popolo di Dio che si incarna negli innumerevoli popoli della terra, assumendo un volto specifico e una voce inconfondibile in ciascun “luogo” dove arriva il cristianesimo. È quanto spiega molto bene un testo come Lumen gentium 13, con il suo prolungamento in Ad gentes 22. Una teologia delle Chiese locali è, in definitiva, una teologia inculturata, di cui oggi c’è urgente bisogno di fronte a un mondo sempre più plurale, a una società sempre più globalizzata e, soprattutto, a una Chiesa sempre meno occidentale.

Coerentemente con quest’opzione programmatica, la prima fase del processo sinodale, quella della consultazione del Popolo di Dio, è avvenuta nelle Chiese locali, sotto la guida dei vescovi diocesani. In questa luce, pur preservando il contributo specifico della USG e della UISG (che, tra l’altro, hanno significativamente scelto di elaborare un documento condiviso), è stato chiesto ai Consacrati e alle Consacrate di camminare insieme alle Chiese locali in cui vivono ed esercitano il loro ministero. Sappiamo che lo hanno fatto con generosità, come dimostra tra le altre cose la presenza di molti di loro – o meglio, di molti voi – nelle equipe sinodali che, seguendo le indicazioni offerte dal Vademecum pubblicato dalla Segreteria Generale del Sinodo, sono state costituite in ciascuna Diocesi. Questa collaborazione o, più correttamente, quest’integrazione dei carismi della vita consacrata nei cammini diocesani ha consentito un reciproco arricchimento: le Chiese locali hanno potuto inserirsi più profondamento nel processo del Sinodo aiutate dalle ricche tradizioni e dai consolidati stili sinodali degli Istituti religiosi, questi a loro volta hanno sperimentato che il vero “camminare insieme” è sempre un camminare con tutta la Chiesa, della quale gli Istituti religiosi sono una parte, per quanto preziosa, ma non il tutto.

Queste istanze si ritrovano non a caso nel Documento Finale approvato a ottobre 2024, nel quale leggiamo:

Nel corso dei secoli, i doni spirituali hanno dato origine anche a varie espressioni di vita consacrata. Fin dagli albori la Chiesa ha riconosciuto l’azione dello Spirito nella vita di quegli uomini e donne che hanno scelto di seguire Cristo sulla via dei consigli evangelici, consacrandosi al servizio di Dio tanto nella contemplazione quanto in molteplici forme di servizio. La vita consacrata è chiamata a interpellare la Chiesa e la società con la propria voce profetica. Nella loro secolare esperienza, le famiglie religiose hanno maturato sperimentate pratiche di vita sinodale e di discernimento comunitario, imparando ad armonizzare i doni individuali e la missione comune. Ordini e Congregazioni, Società di vita apostolica, Istituti secolari, come pure Associazioni, Movimenti e Nuove Comunità hanno uno speciale apporto da dare alla crescita della sinodalità nella Chiesa (n. 65).

In questo testo mi colpisce soprattutto il riferimento alle «sperimentate pratiche di vita sinodale e di discernimento comunitario», che da sempre fanno degli Istituti religiosi, a cominciare dai più antichi, degli autentici laboratori di sinodalità. Essi ci insegnano, attraverso l’istituto del capitolo (generale e provinciale), che le decisioni importanti che riguardano tutti devono essere assunte da tutti, secondo un principio tradizionale richiamato da Papa Francesco nel suo celebre discorso per il 50° anniversario del Sinodo dei Vescovi: «Quod omnes tangit ab omnibus tractari debet». Ci insegnano, ancora, che la decisione finale non esprime tanto il trionfo della maggioranza sulla minoranza, né rappresenta solo un compromesso tra pareri divergenti, ma che essa, pur tenendo conto di tutti gli strumenti umani, scaturisce in ultima analisi dalla preghiera concorde e dalla comune ricerca della volontà di Dio. Ci insegnano, infine, che le votazioni e le elezioni, quali strumenti di democrazia da sempre in uso presso tutti gli Istituti religiosi, possono essere concepite e vissute in modo non parlamentarista e non partitico, bensì come ricerca del consenso fra tutti, nella consapevolezza che proprio il consenso tra le parti, soprattutto quando tende all’unanimità, è normalmente la manifestazione della volontà di Dio qui e ora.

Queste formidabili ricchezze della vita consacrata – certo sottoposte anch’esse alle debolezze umane e alle evoluzioni storiche – possono e devono diventare stile anche delle nostre Chiese locali, magari ispirando la prassi degli organismi diocesani di partecipazione sorti dopo il Concilio, che oggi sono spesso in sofferenza per mancanza di spiritualità, di formazione e anche di convinzione: il consiglio presbiterale, il consiglio pastorale, il sinodo diocesano, solo per citare i principali. In tal senso, il mio invito è a proseguire e a intensificare l’integrazione della vita consacrata nei cammini delle Chiese locali, scommettendo sempre più sulla “logica” del mutuo scambio di doni, in cui ciascuna parte ha sia da ricevere sia da donare.

Ognuno dei vostri Istituti, in particolare, ha sviluppato nel tempo forme specifiche di spiritualità, forgiate dal carisma dei vostri fondatori e dalle vicende storiche che vi hanno contraddistinto: forme di spiritualità all’interno delle quali si inseriscono modelli caratteristici di discernimento, tra loro diversi ma ultimamente complementari. Anche questa eccezionale varietà è il segno dell’azione dello Spirito Santo e della sua infinita fantasia. Nella prima fase del processo sinodale, grazie al contributo di alcuni di voi, la Segreteria Generale del Sinodo ha pubblicato un bel fascicolo, intitolato Verso una spiritualità per la sinodalità, e contemporaneamente ha affidato a diversi rappresentanti della vita consacrata il compito di preparare delle sintesi di spiritualità sinodale a partire dalle tradizioni di alcuni dei principali Istituti religiosi o delle nuove Comunità (sintesi tuttora accessibili dal sito ufficiale del Sinodo): Agostiniani, Benedettini, Domenicani, Comunità di Sant’Egidio, Francescani, Ignaziani, Salesiani e Movimento dei Focolari. Tutti voi – membri di antichi e nuovi Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica – siete maestri di spiritualità e di discernimento, e potete – dovete! – arricchire con la vostra esperienza le Chiese locali nelle quali il Signore vi ha chiamato, lungo i secoli, a piantare le vostre tende.

 

Un esercizio profetico dell’autorità

In secondo luogo, un Sinodo sulla partecipazione – cioè sul protagonismo di tutti i battezzati e di tutte le battezzate all’unica missione ecclesiale – non poteva non mettere a tema il delicato nodo dell’autorità nella Chiesa. In un certo senso, il processo sinodale sta favorendo l’emergere di una rinnovata teologia dell’autorità, da cui dovrebbe coerentemente scaturire un rinnovato esercizio dell’autorità.

Nella fase della consultazione non sono mancate voci franche intorno a una comprensione e un esercizio distorti dell’autorità ecclesiale, anche nell’ambito della vita consacrata. Il Documento di Lavoro per la Tappa Continentale – sintetizzando le risposte alla consultazione promossa nella prima fase del processo sinodale – ha dato voce a «un desiderio profondo ed energico di forme di esercizio della leadership – episcopale, sacerdotale, religiosa e laicale – che siano relazionali e collaborative, e di forme di autorità capaci di generare solidarietà e corresponsabilità. […] Laici, religiosi e chierici desiderano mettere i propri talenti e capacità a disposizione della Chiesa e per farlo chiedono un esercizio della leadership che li renda liberi» (n. 58).

Il Sinodo, in quest’orizzonte, ci ha aiutato a capire che gli abusi nella Chiesa non riguardano solo l’ambito sessuale, dal momento che quest’ultimo è in realtà l’esito estremo e drammatico di molte altre forme di violazione della coscienza e della libertà personale. L’abuso sessuale, in effetti, diventa possibile nel quadro di una comprensione e di un esercizio distorti dell’autorità, e questo – come ben sapete – tocca in modo particolare molti Istituti religiosi. Nel caso, poi, della vita consacrata femminile, gli abusi sono al tempo stesso la manifestazione patologica di una mentalità maschilista, che – nonostante i progressi fatti nell’ultimo secolo in ordine all’emancipazione delle donne – continua ad affliggere le nostre società e anche le nostre comunità ecclesiali. In tal senso, la Relazione di Sintesi, approvata al termine della Prima Sessione dell’Assemblea sinodale nell’ottobre 2023, afferma espressamente: «I casi di abuso di vario genere a danno di persone consacrate e membri di aggregazioni laicali, in particolare donne, segnala un problema nell’esercizio dell’autorità e richiede interventi decisi e appropriati» (n. 10/d).

Per il Documento Finale la lotta alla piaga degli abusi non può essere condotta solo con gli strumenti, pure necessari, della repressione e della sanzione. Occorre un cambiamento di mentalità, di stile, di cultura ecclesiale, che coinvolga anzitutto il nostro modo di concepire e di vivere l’autorità, a tutti i livelli della Chiesa: è quanto già voi stessi, Consacrati e Consacrate, chiedevate nella vostra risposta alla prima consultazione del processo sinodale, auspicando «uno stile di governance circolare (partecipativo) e meno gerarchico e piramidale», capace di promuovere una Chiesa più improntata alla sororità e alla fraternità, fondate sull’iniziazione cristiana e sulla stessa consacrazione religiosa.

Solo modelli di leadership più capaci di collaborazione tra le parti, di condivisione delle responsabilità, di trasparenza e di rendicontazione – cioè, in una parola, di sinodalità – potranno sradicare in profondità quelle tendenze anche sottili all’abuso che proprio negli Istituti religiosi hanno spesso trovato un terreno di coltura. Vale in tal senso anche per i Consacrati e le Consacrate, a cominciare da voi che esercitate un ministero di autorità all’interno dei vostri rispettivi Istituti, quanto il Documento Finale afferma riferendosi in special modo ai Ministri ordinati:

Una distribuzione più articolata dei compiti e delle responsabilità, un discernimento più coraggioso di ciò che appartiene in proprio al Ministero ordinato e di ciò che può e deve essere delegato ad altri, ne favorirà l’esercizio in modo spiritualmente più sano e pastoralmente più dinamico in ciascuno dei suoi ordini. Questa prospettiva non mancherà di avere un impatto sui processi decisionali caratterizzati da uno stile più chiaramente sinodale. Aiuterà anche a superare il clericalismo inteso come uso del potere a proprio vantaggio e distorsione dell’autorità della Chiesa che è servizio al Popolo di Dio. Esso si esprime soprattutto negli abusi sessuali, economici, di coscienza e di potere da parte dei Ministri della Chiesa. «Il clericalismo, favorito sia dagli stessi Sacerdoti sia dai Laici, genera una scissione nel Corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo» (Francesco, Lettera al Popolo di Dio, 20 agosto 2018) (n. 74).

La vita consacrata profezia di missionarietà

In terzo e ultimo luogo, vorrei spendere una parola sulla dimensione essenzialmente missionaria della conversione sinodale della Chiesa. Nel corso del processo abbiamo compreso in modo sempre più profondo che la parola “missione”, contenuta nel titolo del Sinodo accanto alle parole “partecipazione” e “comunione”, non era una semplice appendice estrinseca. Se quella parola è collocata per ultima, ciò non vuole esprimere la sua minore importanza. Piuttosto, essa si trova alla fine perché è, per così dire, quella che “spinge” il Sinodo a uscire fuori dalle aule, a protendersi verso l’umanità e il mondo, a delineare il volto di una Chiesa non introversa, cioè ripiegata sui suoi meccanismi interni, ma estroversa, cioè meglio attrezzata per l’opera fondamentale dell’evangelizzazione in quest’ora della storia.

Ricorre quest’anno, come è noto, il 60° anniversario della pubblicazione del Decreto Ad gentes, che, licenziato al termine del Concilio Vaticano II, ha ripensato il tema classico delle “missioni” alla luce della “missione” generale della Chiesa, in quanto quest’ultima, traendo origine dalle missioni congiunte del Figlio e dello Spirito Santo, è «per sua natura missionaria» (n. 2). Forse fino a oggi non abbiamo ancora colto le ripercussioni teologiche e pastorali di questa nuova comprensione della Chiesa, che per molti aspetti ci riporta all’esperienza delle prime comunità cristiane, quelle degli Atti degli Apostoli e dell’epistolario paolino. Quest’anniversario potrebbe, in tal senso, aiutarci a rileggere il decreto conciliare, magari con l’aiuto dei principali documenti magisteriali post-conciliari che ci hanno aiutato a precisare i contorni di una Chiesa costitutivamente missionaria, in particolare l’Esortazione Apostolica Evangelii nuntiandi di Paolo VI, pubblicata esattamente cinquant’anni fa, nel contesto dell’Anno Santo 1975, quale frutto del Sinodo sull’evangelizzazione, e l’Esortazione Apostolica Evangelii gaudium di Francesco, alla quale – come ho detto – lo stesso Leone XIV ha fatto riferimento nel suo discorso ai cardinali del 10 maggio scorso.

Potremmo dire che il Sinodo sulla sinodalità, con la sua profonda istanza di rinnovamento delle istituzioni ecclesiali in senso partecipativo, ha costituito un modo per tradurre in pratica il sogno espresso da Papa Francesco in Evangelii gaudium:

Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia (n. 27).

Questo “sogno” di Francesco – che è diventato anche il “sogno” del Sinodo – interpella in modo particolare proprio voi Consacrati, dal momento che i vostri Istituti Religiosi sono da sempre avamposti del dinamismo missionario della Chiesa. Infatti, è in gran parte grazie a voi – alla dedizione, al coraggio e alla generosità dei vostri missionari e delle vostre missionarie di ieri e di oggi, molti chiamati addirittura al martirio – che la Bella Notizia di Gesù Cristo è arrivata nei punti più estremi del pianeta. Non sorprende, in tale orizzonte, che nei primi interventi di Papa Leone il tema della missione sia così insistente, considerando che egli stesso è stato missionario per gran parte della sua vita, al punto da unire nella sua persona e nel suo ministero le due Americhe, quella del Nord e quella del Sud. Anche il Documento Finale ha con onestà riconosciuto questo vostra costitutiva attitudine missionaria:

Riconosciamo agli Istituti di Vita Consacrata, alle Società di Vita Apostolica […] la capacità di radicarsi nel territorio e al tempo stesso di collegare luoghi e ambiti diversi, anche a livello nazionale o internazionale. Spesso è la loro azione, assieme a quella di tante singole persone e gruppi informali, a portare il Vangelo nei luoghi più diversi: ospedali, carceri, case per anziani, centri di accoglienza per migranti, minori, emarginati e vittime della violenza; luoghi educativi e di formazione, scuole e università, in cui si incontrano giovani e famiglie; luoghi della cultura, della politica e dello sviluppo umano integrale dove si immaginano e si costruiscono nuove forme di vivere insieme (n. 113).

In questa nuova tappa del cammino della Chiesa, che ha preso avvio con la conclusione della fase celebrativa del Sinodo e che conosce ora un nuovo impulso grazie al pontificato di Leone XIV, proprio voi Consacrati, appartenenti a Istituti antichi e moderni, dovete sentirvi investiti del compito di essere avamposti del rinnovamento missionario di tutta la Chiesa: le vostre comunità, quale «laboratorio di interculturalità» (n. 65), possono contribuire a rendere il cristianesimo contemporaneo più capace di mettere il Vangelo in dialogo con tutte le culture, di raggiungere con la Parola tutte le periferie, di suscitare partecipazione e protagonismo laddove persone e popoli sono ancora costretti all’emarginazione e all’oppressione, di stendere ponti di pace laddove trionfano ancora le ragioni del conflitto.

Proprio questo, del resto, è il desiderio espresso dal nuovo Vescovo di Roma nell’omelia per l’inizio del suo Ministero petrino: il desiderio, esplicitamente ispirato all’ecclesiologia di Sant’Agostino d’Ippona, di «una Chiesa unita, segno di unità e di comunione, che diventi fermento per un mondo riconciliato».

24 maggio 2025, 09:52