Il ministero petrino in una Chiesa sinodale

Il ministero petrino in una Chiesa sinodale

Intervenendo il 13 maggio 2024 alla Conferenza Stampa di presentazione del volume The Bishop of Rome (il Vescovo di Roma), un documento del Dicastero per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, il cardinale Mario Grech si è soffermato sul ministero del Papa, quale successore di Pietro, mostrando come la dinamica sinodale che sviluppa e articola la comunione tra i fedeli, tra i vescovi e le Chiese mostra come sarebbe possibile arrivare a un esercizio del primato a livello ecumenico. Di seguito il suo contributo:

La lettura del documento sul ministero petrino Il Vescovo di Roma. Primato e sinodalità nei dialoghi ecumenici e nelle risposte all’enciclica Ut unum sint conferma l’amore alla Chiesa da parte del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, amore che emerge in un doppio aspetto: come servizio all’unità dei cristiani e allo stesso tempo come fedeltà a colui che è principio visibile di unità della Chiesa tutta.

Non è mio compito presentare il documento; desidero invece sottolineare l’opportunità dell’approfondimento di un tema di fondamentale importanza per la vita della Chiesa. Davvero questa ricerca si rivela preziosa per rispondere alla richiesta di Giovanni Paolo II in Ut unum sint:

«Quale Vescovo di Roma so bene, e lo ho riaffermato nella presente Lettera enciclica, che la comunione piena e visibile di tutte le comunità, nelle quali in virtù della fedeltà di Dio abita il suo Spirito, è il desiderio ardente di Cristo. Sono convinto di avere a questo riguardo una responsabilità particolare, soprattutto nel constatare l'aspirazione ecumenica della maggior parte delle Comunità cristiane e ascoltando la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova» (UUS 95).

Sono passati trent’anni da quelle parole e molte cose sono cambiate nella Chiesa, ma l’urgenza dell’unità della Chiesa non è venuta meno e la richiesta di trovare una modalità di esercizio del ministero petrino che sia condivisa dalle Chiese emerge con forza dai dialoghi ecumenici. Papa Francesco, sempre richiamandosi alle parole di Giovanni Paolo II, ha ribadito «la necessità e l’urgenza di pensare a “una conversione del papato”», sottolineando come «il Papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come Battezzato tra i Battezzati e dentro il Collegio episcopale come Vescovo tra i Vescovi, chiamato al contempo – come Successore dell’apostolo Pietro – a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese».

Il Papa si esprimeva in questi termini nel discorso pronunciato in occasione del cinquantesimo anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, il 17 ottobre 2015, che costituisce una sorta di manifesto della sinodalità e della Chiesa costitutivamente sinodale. Egli sottolineava come «l’impegno a edificare una chiesa sinodale è gravido di implicazioni ecumeniche»; e diceva di essere «persuaso che, in una Chiesa sinodale, anche l’esercizio del primato petrino potrà ricevere maggiore luce».

Certo, un primo contributo i dialoghi ecumenici l’hanno portato: nonostante che in ambienti ecclesiali si continui a parlare di Sommo o di Romano Pontefice, è ormai recepito il titolo di Vescovo di Roma, ormai usato come unico titolo dall’Annuario Pontificio, che elenca gli altri come titoli storici. Ma un cambio di modalità nell’esercizio del primato non può consistere in un cambio di nome, per quanto questo sia rivelativo di una cambiata comprensione del ruolo primaziale.

Se c’è un “luogo”, un contesto che oggi può manifestare – anzi, sta manifestando – una modalità nuova di esercitare il primato, questo è proprio il processo sinodale. Vorrei soffermarmi su questo aspetto di novità e mostrare come esso costituisca la cornice più adatta per inquadrare anche il documento pubblicato dal Dicastero.

Si può misurare la novità di questo esercizio confrontandolo con la dottrina del primato proposta dal concilio Vaticano I e che il concilio Vaticano II ha ribadito dentro il quadro della dottrina sulla costituzione gerarchica della Chiesa. Se si vuole comprendere la prospettiva del Vaticano I, basta rovesciare l’affermazione di Papa Francesco: per essere garanzia della libertà della Chiesa «il Papa deve stare, da solo, al di sopra della Chiesa; se stesse dentro di essa come Battezzato tra i Battezzati e dentro il Collegio episcopale come Vescovo tra i Vescovi, non sarebbe strumento efficace di difesa di quella libertà che il Signore ha dato alla sua Chiesa; non potrebbe essere colui che – come Successore dell’apostolo Pietro –  guida la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese».

Il compito che il Vaticano I assegna al primato è di essere il baluardo contro le pretese degli Stati moderni di subordinare la Chiesa alle leggi costituzionali, secondo i principi del gallicanesimo, applicati dalle monarchie costituzionali in materia religiosa. Per garantire la libertà della Chiesa – perché stesse al di sopra di tutti, re compresi –, era necessario per il Vaticano I affermare: «Perché […] lo stesso Episcopato fosse uno ed indiviso e l’intera moltitudine dei credenti, per mezzo dei sacerdoti strettamente uniti fra di loro, si conservasse nell’unità della fede e della comunione, anteponendo agli altri Apostoli il Beato Pietro, in lui volle fondato l’intramontabile principio e il visibile fondamento della duplice unità» (Concilio Vaticano I, Pastores Aeternus, 18 luglio 1870).

È subito evidente che il modello di Chiesa sul quale poggia la dottrina del primato è quello della Chiesa piramidale, così impostato fin dalla Riforma gregoriana: il Vescovo di Roma, il Romano Pontefice, è il vertice della piramide gerarchica, il Sommo Pontefice che governa non soltanto la Chiesa di Roma, ma la Chiesa universale con potestà propria, piena e universale. Una potestà che gli è data in quanto Vicario di Cristo, che rende visibilmente presente il Capo della Chiesa, il Signore di tutte le cose, al quale tutti devono obbedienza. È la tesi della Chiesa come societas perfecta, superiore ad ogni società umana, perché il bene che procura è del cielo e non della terra, perché le leggi che propone derivano dalla Rivelazione e non dalla ragione, perché l’autorità che la governa è da Dio e non dagli uomini.

Il Vaticano I non ha potuto completare la dottrina sulla Chiesa: Pastor Aeternus, che propone la dottrina sul primato e quella dell’infallibilità del Papa quando parla ex cathedra, è soltanto la constitutio dogmatica prima; la sospensione del concilio sine die non ha permesso l’approvazione dello schema constitutionis dogmaticae secundae, che sviluppava la dottrina generale sulla Chiesa, in particolare sull’episcopato. Come si sa, questo tema fu ripreso al concilio Vaticano II, che ha ribadito come oggetto certo di fede «questa dottrina della istituzione, della perpetuità, del valore e della natura del sacro primato del romano Pontefice e del suo infallibile magistero, il santo Concilio […]. Di più proseguendo nel disegno incominciato, ha stabilito di enunciare ed esplicitare la dottrina sui vescovi, successori degli apostoli, i quali col successore di Pietro, vicario di Cristo e capo visibile di tutta la Chiesa, reggono la casa del Dio vivente» (LG 18).

Il rapporto tra primato ed episcopato è stato inquadrato nella dottrina della collegialità, che ha costituito uno dei temi più dibattuti in aula. Due sono le affermazioni fondamentali di LG 22: che «il collegio o corpo episcopale non ha […] autorità, se non lo si concepisce unito al Pontefice romano, successore di Pietro, quale suo capo, e senza pregiudizio per la sua potestà di primato su tutti, sia pastori che fedeli»; che «l'ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale si perpetua il corpo apostolico, è anch'esso insieme col suo capo il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa sebbene tale potestà non possa essere esercitata se non col consenso del romano Pontefice». 

L’ordine delle affermazioni lascia trapelare la preoccupazione di difendere anzitutto le prerogative del Papa; quanto questo fatto condizionasse la discussione, lo si può comprendere dalla scelta di Paolo VI di vincolare l’interpretazione del testo alla nota explicativa praevia. Si può dire che la difficoltà di trovare una forma di esercizio della collegialità nel post-concilio è stata almeno pari a quella di trovare un’altra forma di esercizio del primato. La difficoltà dipende in larga parte dall’esistenza di due soggetti di «suprema e piena potestà su tutta la Chiesa» pensati in assoluto, sopra la Chiesa. Stante il problema, molti hanno concluso che anche su questo punto la soluzione proposta dal concilio è impraticabile: ulteriore argomento per screditare l’autorità del Vaticano II.

Al contrario, la soluzione sta proprio nell’ecclesiologia conciliare, quando la si rilegga nell’orizzonte della sinodalità. In effetti, non possiamo parlare di primato e collegialità senza ricollegarli alla sinodalità: il vincolo è imposto dalla “rivoluzione copernicana” determinata dal concilio con l’inserimento del capitolo sul Popolo di Dio nella costituzione sulla Chiesa, che ha destrutturato la societas inaequalium, fondata sulla dicotomia tra Ecclesia docens e discens, tra chi concentra nelle sue mani ogni capacità attiva e chi è solo destinatario passivo dell’azione altrui. Il processo sinodale si fonda sulle relazioni tra Popolo di Dio, Collegio dei Vescovi e Vescovo di Roma, e ricompone in una circolarità armonica sinodalità, collegialità, primato. «Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto»; e lo è per il fatto che «Popolo di Dio, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: [sono] l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo “Spirito della verità” (Gv 14,17), per conoscere ciò che Egli “dice alle Chiese” (Ap 2,7)» (Francesco, Discorso nel 50° del Sinodo dei Vescovi, 17 ottobre 2015).

Ma la circolarità tra sinodalità, collegialità e primato non si comprende con il solo ristabilimento delle relazioni tra Popolo di Dio, Collegio e Vescovo di Roma. Per questa via, le possibili tensioni tra due soggetti con piena e suprema autorità nella Chiesa possono trasformarsi in possibili conflitti tra Popolo di Dio e gerarchia. La prima stagione post-conciliare è stata dominata dall’alternativa tra “Chiesa dal basso/dall’alto”, Chiesa di popolo e gerarchia, carisma e istituzione. La via per comporre in unità dinamica le funzioni dei tre soggetti passa per il principio ecclesiologico affermato dal concilio, sul quale si basa l’intero processo sinodale che stiamo vivendo.

Quando, infatti, si comprende la Chiesa (con LG 23) come «il corpo delle Chiese», perché «in esse e a partire da esse che esiste la Chiesa cattolica una e unica», ogni soggetto è realmente posto nella condizione di svolgere la sua funzione nel processo sinodale. Il Popolo di Dio, anzitutto: se ogni Chiesa è una portio Populi Dei, il Popolo di Dio come soggetto del sensus fidei non sarà mai una somma di persone, una massa anonima, ma la totalità dei battezzati che vive e cammina nelle Chiese; per questo la consultazione del Popolo di Dio nelle Chiese particolari è vero ascolto del sensus fidei. I Vescovi: se ogni Chiesa particolare è tale perché il suo Pastore è «visibile principio e fondamento di unità» (LG 23), e la Chiesa è «il corpo delle Chiese» in comunione tra loro, l’insieme dei Pastori non può che essere un corpo o collegio, che ripresenta la Chiesa e che nella Chiesa svolge la funzione di discernimento ai vari livelli della communio. È la dinamica che si attua nel caso più chiaro di esercizio della sinodalità, la sancta Synodus. Nel concilio ecumenico, ogni Vescovo ripresenta la sua Chiesa e quella assemblea sinodale ripresenta la Chiesa tutta nella sua unità e varietà.

Il rimando al concilio ecumenico permette di comprendere la novità che sta emergendo nell’esercizio del ministero petrino. Per spiegarlo, basta un richiamo alla stagione dei grandi concili: mentre ci prepariamo a celebrare l’anniversario del concilio di Nicea, non possiamo dimenticare che fu l’imperatore Costantino a convocarlo. E questo perché la Chiesa antica, che era indubbiamente una Chiesa sinodale, non aveva maturato un consenso pieno intorno al primato. Se la questione si riduce a un primato di onore, la possibilità di convocare un concilio ecumenico passa per il principio di unanimità o per l’intervento esterno dell’imperatore.

La definizione del primato, riletta in chiave sinodale, permette alla Chiesa di superare quel vulnus. Il concilio Vaticano II lo ha messo bene in evidenza, quando ha affermato che «è prerogativa del Romano Pontefice convocare questi concili, presiederli e confermarli» (LG 22). La formula più bella, che esprime l’unità del Collegio intorno al Successore di Pietro è quella voluta da Paolo VI, il quale si firmò «una cum Patribus» in calce ad ogni documento conciliare promulgato.

Il processo sinodale ricalca e approfondisce questa forma di esercizio del ministero petrino. A livello della universa Ecclesia, infatti, è prerogativa del Vescovo di Roma chiamare all’azione sinodale, in quanto egli è «visibile principio e fondamento di unità» della Chiesa. Molti hanno sottolineato la complessità del processo sinodale che sta coinvolgendo tutta la Chiesa e tutti nella Chiesa, senza sottolineare che tutto questo – dalla consultazione del Popolo di Dio nelle Chiese particolari al discernimento nelle Conferenze episcopali e nelle Assemblee continentali, al discernimento nelle due sessioni dell’Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi – dipende dal solenne atto di apertura del processo sinodale, celebrato in San Pietro il 10 ottobre 2021.

L’esercizio del ministero petrino non si riduce a questo atto iniziale, per tornare alla fine del processo sinodale per ricevere i risultati ed eventualmente confermarli con una esortazione post-sinodale. La sua funzione di presidenza è visibile nell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi: è lui che presiede i lavori dell’aula, personalmente o tramite suoi delegati. La sua è stata una presenza discreta, anche in Assemblea, dove i suoi interventi si sono limitati all’incoraggiamento dei partecipanti o alla precisazione di alcuni punti che richiedevano il suo giudizio. Ma proprio questa modalità di presenza ha favorito il lavoro in aula.

Ma pure l’intero svolgimento del processo in ogni sua tappa dipende dal ministero petrino: egli assolve la sua funzione di accompagnamento e conferma del processo mediante la Segreteria Generale del Sinodo, che è «un’istituzione permanente al servizio del Sinodo dei Vescovi, direttamente sottoposta al Romano Pontefice» (EC, art. 22 § 1), «competente nella preparazione e nell’attuazione delle Assemblee del Sinodo, nonché nelle altre questioni che il Romano Pontefice vorrà sottoporle per il bene della Chiesa universale» (EC, art. 23 § 1).

Sarebbe un errore misurare l’importanza del ministero petrino dalla concentrazione nelle sue mani di ogni decisione. Posso testimoniare che Papa Francesco ci ha sempre animati a continuare nel nostro servizio per la Chiesa.

Il processo sinodale non ha mancato di sottolineare questa forma di esercitare il ministero petrino. Nell’Instrumentum laboris della prima sessione dell’Assemblea, l’ultima questione era così formulata: «Alla luce della relazione dinamica e circolare tra sinodalità della Chiesa, collegialità episcopale e primato petrino, come si dovrebbe perfezionare l’istituzione del Sinodo perché diventi spazio certo e garantito di esercizio della sinodalità, assicurando a tutti – Popolo di Dio, Collegio dei Vescovi e Vescovo di Roma – la piena partecipazione, nel rispetto delle specifiche funzioni?». La Relazione di sintesi dell’Assemblea del 2023 contiene un tema sul Vescovo di Roma nel Collegio dei Vescovi (tema 13), affermando che in una visione sinodale, «il ministero petrino […] è intrinseco alla dinamica sinodale» e sottolineando come «sinodalità, collegialità e primato si richiamano a vicenda: il primato presuppone l’esercizio della sinodalità e della collegialità, così come entrambe implicano l’esercizio del primato» (13/a). L’Assemblea chiede poi di approfondire il «modo in cui una rinnovata comprensione dell’episcopato all’interno di una Chiesa sinodale incida sul ministero del Vescovo di Roma e sul ruolo della Curia Romana» (13/d).

Questi elementi lasciano intravedere un modo nuovo di esercitare il ministero petrino, che la Chiesa, attraverso il processo sinodale, già riconosce. La dinamica sinodale, sviluppata sul triplice registro della communio – fidelium, Ecclesiarum, episcoporum – mostra come sarebbe possibile arrivare a un esercizio del primato a livello ecumenico. Lo ha detto il Papa nel discorso nel 50° del Sinodo dei Vescovi; lo conferma il documento del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani sul Primato, illustrando i tanti elementi che possono aiutare la ricerca di una forma di esercizio del ministero petrino a servizio di quanti «guardano con fede a Gesù, autore della salvezza e principio di unità e di pace» (LG 9), perché si compia la preghiera di Gesù: «Che tutti siano uno!» (Gv 17, 21). 

 

13 giugno 2024, 09:45